VAPORS OF LIGHT

La luce stimola la percezione delle cose. Il riflesso della radiazione elettromagnetica declina la nostra intuizione del mondo attraverso una meccanica di filtrazione dello spettro cromatico della luce. La realtà, in questo modo, si rivela ai nostri occhi e da questi al cervello che distingue le forme e lo spazio fisico.

Nell’Arte, dall’Impressionismo in poi, il tema della luce viene affrontato come il campo d’indagine per esplorare ciò che è invisibile nella realtà oggettiva. È il principio di una ricerca che rende visibile la forma oltre lo sguardo naturalistico, che non descrive, suggerisce.

Lo spazio diventa il campo di una estetica contemplazione che, in un soccorso continuo tra la retina e la mente, disegna la soggettiva valutazione delle cose, come è soggettiva, in ogni uomo, la capacità di percepire lo spettro luminoso. L’arte inizia ad esplorare l’invisibile aprendo un’era di illuminazione di altre realtà, vissute nella nostra psiche, fisicamente parallele a quella reale, e tanto quanto attendibili.

Ecco che d’improvviso non c’è più materia ma riflesso di essa, non più cose codificate dalla fisica ma descritte dalla sensazione, che esistono per stimolare le più autentiche qualità del nostro essere individuale.

L’Impressionismo, dunque, è la fase di inizio di una cancellazione progressiva dei margini della figura (la camicia di forza che ci chiude nella gabbia del finito) e la sua “miscelazione” in un continuum tra spazio e movimento, tra particolare e insieme, tra spettro cromatico e spettro dei sentimenti, tra oggetto e pensiero dell’oggetto. E nonostante lo sprone iniziale degli impressionisti sia volutamente lontano da ogni astrazione lirica, il processo innescato è irreversibile e va ben oltre i loro propositi.

Le figure plasmate/riflesse di luce degli impressionisti sembrano rendere immediatamente visibile ogni vibrazione luminosa che attraversa le superfici degli oggetti e degli esseri viventi, mutando sempre di più la rappresentazione pittorica da fisicamente riconoscibile a fisicamente intuibile, lasciando un margine di oscillazione tra la percezione del mondo conosciuto e sensibile e un altro universo che trasfigura continuamente attraverso il nostro sguardo.

Allora nella pittura avviene un cambiamento totale rispetto alla sua fruizione: si guarda sempre di meno e si è chiamati a vedere sempre di più.

Guardare è come accarezzare le cose, percepirne la consistenza atomica, il volume specifico. Vedere è ricreare le stesse cose attraverso una sovrapposizione di giudizio e immaginazione soggettiva che renda visibile quella parte di realtà che i nostri occhi non vedono.

Un critico sentire; un atto creativo, immaginativo, che fa emergere le forme oltre la dimensione naturalistica.

Raffaele Cioffi nasce dalla scuola aniconica, post-analitica, o come preferisco dire, è un pittore “trans-analitico” ovvero che fa della prassi tecnica, ben registrata nelle sue fasi, uno strumento ma non un fine, lasciandosi libero di interporre temi ed elementi in funzione esaustiva dei suoi propositi. L’artista non si preoccupa di raccontare, piuttosto di creare le condizioni, in chi osserva, per una personale esperienza sensibile e poetica, non condotta da elementi di percorso riconoscibili ma solo stimolata dagli effetti del dispositivo pittorico e dalla macchina degli intenti regolata dal metodo.

Non desidero soffermarmi sulle analogie ad artisti che utilizzano la luce per il loro lavoro, come Dan Flavin o James Turrell, poiché non credo che quel tipo di evento, tridimensionale e fisicamente reale e ambientale, possa essere immediatamente trasferibile alla pittura, pur rimanendo una suggestione comprensibile, un campo di indagine e di esiti comuni. Allo stesso modo non basta rilevare una pittura svolta per campiture colorate a che la si iscriva, d’ufficio, nel Color Field. Certamente la suggestione verso le stesure verticali di Barnett Newman sono evidenti in molti lavori di Cioffi degli ultimi anni, così come la struttura compositiva per macchie effloranti sottolinea la profonda impressione che l’artista ha ricavato dalle opere di Mark Rothko. Allo stesso modo gli interventi per spatolature successive, nei lavori della serie “Verso l’Orizzonte” del 2009, si ispirano chiaramente alle variazioni di Gerhard Richter, amato da Cioffi forse proprio per i suoi temi: il principio di una pittura, che vuole essere pittura, stratificante e aperta, che fa dell’oscillazione libera degli stili e dell’affrancatura dai dogmi critico-ideologici la strada per “rappresentare il meraviglioso” per citare le sue parole (“Gerhard Richter – Painting”, film di Corinna Belz, 2011).

Desidero rivolgermi, allora, ancora più indietro nel tempo per capire la strada di Raffele Cioffi, per cercarne una genesi che non sia legata a temi recenti, facilmente desumibili tra le categorizzazioni consuete. La scuola impressionista, a mio avviso, ha istruito senz’altro le campiture di queste ultime opere dell’artista tanto quanto, se non più, del Color Field americano, come nel caso di “Smarginatura 2” o di “Porta Scura” esposte in questa ultima mostra. Claude Monet vaporizza la forma diluendo ogni elemento in una frammentazione che eviti la “sintesi sottrattiva”, cioè una sovrapposizione del colore che riduca la limpidezza luminosa, e in questo si allontana sempre di più dalla realtà fisica della rappresentazione realistica basata sul volume disegnato e, nello stesso tempo, comprende che la luce sia l’amalgama del “tutto”. In questi ultimi lavori Cioffi non persegue la rigida ricerca della luminosità cristallina di Monet ma utilizza le suggestioni tecniche di quella scuola attualizzando quelle sperimentazioni secondo dinamiche di contrasto contemporanee con un’egida simile: “afferrare” l’immagine pittorica totalizzante.

Cioffi è un ottimo conoscitore della tecnica, e fin dalle sue prime opere dimostra che la tessitura sottile e fittissima della stesura del pigmento sulla tela è la tecnica ideale per far vibrare, nervosamente, il colore.

Infatti egli dispone un campo dinamico tra la porosità cromatica della stesura “fibrillante” dei singoli interventi di colore, leggibili anche puntualmente, e l’istruzione di proto-forme che vediamo apparire/emergere come impronte misteriose, che non hanno nulla di iconico o simbolico ma che, in qualche modo, giustificano l’interrelazione tra il colore, la luce e il “movimento del tutto”.

I primi lavori aniconici di Cioffi si muovono per filamenti, che man mano diventano pieghe istruendo le superfici di ritmi verticali, vibrazioni che non sfibrano la densità dei piani del colore. Successivamente le sue composizioni si avvicinano all’astrattismo e le pieghe si concentrano accendendo stringhe di colori “al neon” verticali o orizzontali che illuminano, spesso con effetti distonici, i campi perimetrali e sottostanti di forma ortogonale. Con il passare degli anni il senso di una sintesi omogenea della composizione, polarizzata sul contrasto alone/stringa, si è focalizzato sempre di più sulla luce che istruisce il colore e la forma piuttosto che il contrario.

La mostra “Vapors of light”, vapori di luce, presenta lavori che aprono un capitolo nuovo nel percorso di Cioffi, in cui troviamo sperimentazioni inedite ed elementi di studi precedenti, secondo una declinazione di intenti ben più armonica e definita.

Nell’evidenza le opere di questa mostra esprimono un minore compiacimento estetico, allontanandosi da soluzioni accattivanti e dalla facile retorica del “pictor optimus” assecondando, diversamente da prima, l’esercizio tecnico ad esiti più ricercati e di maggiore maturità intellettuale, in cui l’immediatezza del gesto imprime il codice generatore dell’intera composizione.

Le tensioni di segno e di colore sono immediatamente leggibili dalle tracce di pigmento, nervose e caotiche, che restituiscono un effetto di vapore denso, quasi oleoso, simile al principio fisico della “interferenza per film sottili” o “distorsione per cammini ottici differenti” (per intenderci quella dell’olio sull’acqua) che disegna riflessi cromatici cangianti.

Le tele sono coperte da vapori di luce colorata in cui, talvolta, si disvelano forme proto-geometriche, in contenimento instabile e perenne deformazione perimetrale, che producono una meccanica di interferenza e impressione di scivolamento con la superficie del supporto, spesso con effetti stridenti. Le tracce di colore, a contrasto violento sulle bordature, sono riflessi il cui esercizio sembra atto a disequilibrare la perfezione, determinando perturbazioni sottili, quasi ambigui “segnali”.

L’intento di Cioffi a mio avviso è chiaro: utilizzare molto liberamente la tecnica neo-impressionista applicata con il senso della prassi pittorica esatta e ben sintetizzata, che è della scuola analitica, attraverso la lente dell’esperienza informale, attualizzando le sue composizioni proprio secondo una meccanica di contrasto che induca alla perturbazione sensoriale, visiva e dunque intellettuale.

I suoi lavori sono passaggi che sembrano volerci assorbire attraverso misteriosi tunnel spazio-temporali come nel caso delle “Porte”, o avvolgerci in nebulizzazioni cromatiche che disciolgono la luce come nel caso degli “Aloni” oppure che ci pongono di fronte il senso di una realtà che si sta rivelando, “staccandosi” dal supporto della tela come nelle “Smarginature”. In tutti questi lavori Cioffi esprime una forte volontà “impressiva” che da un lato dirige il senso dell’opera, il suo guscio comunicativo, e dall’altro promuove di stimolare la sensazione nell’osservatore, suggerendo una pulsazione regolare e continua, quasi ipnotica per poi disconnetterla con interventi fuorvianti.

Il principio: credere nella pittura come mezzo insuperabile di liberazione dalle manipolazioni del pensiero lineare.

L’intento: attraverso l’invenzione d’arte, costringerci alla reazione contro l’abulia del verosimile.

Il fine: svegliare i “dormienti”, ovvero noi tutti, ipnotizzati dalle simulazioni del mondo degli oggetti.