OLTRE LE COSE DEL REALE. DISCORSO SULLA PITTURA DI RAFFAELE CIOFFI

Pittura analitica e pittura post-analitica: un passaggio necessario.

Raffaele Cioffi nel 1990 entra all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano eppure già dopo il primo anno di corso capisce che, per lui, l’urgenza di attuare una ricerca pittorica “vera” è più forte che seguire la linea concettuale del suo docente Luciano Fabro, tra i fondatori dell’Arte Povera, materia in quel momento ancora di grande impatto culturale nel mondo artistico italiano e, insieme alla Transavanguardia, probabilmente la corrente di maggiore rilevanza nei principali canali commerciali ed espositivi. Egli dunque abbandona le lusinghe di una rotta che forse avrebbe avuto vie più facili da percorrere ma che non convincono l’allora giovanissimo artista di Desio a lasciare la strada della pittura.

Chi scrive è il primo a credere che classificare un artista, soprattutto nel caso di autori degli ultimi venti-trent’anni, senz’altro non sia più necessario come in passato, a causa della diffusa libera eterogeneità dei riferimenti stilistici e tematici scelti dagli autori dell’ultimo contemporaneo, eppure leggere le origini di un segno e le suggestioni che inardina, anche se non esaustivo in senso universale, è comunque utile per comprendere a tutto tondo la weltanschauung dell’artista. Questo atteggiamento critico permette di approfondire maggiormente la “macchina pittorica” di Cioffi il cui orientamento può essere collocato all’interno di un clima di esperienze formali e teoriche della pittura contemporanea che riconosciamo nell’esperienza aniconica, anche se egli ha articolato, fin da subito, una grammatica personale che poi, negli anni successivi, ha sempre di più fatto emergere un accento narrativo di ordine metafisico e spirituale.

Nei primi anni di attività di Cioffi la suggestione per il Color Field di Morris Lewis e certi interventi perturbativi espressionisti astratti alla Gerard Richter si interpongono alle misure cromatiche composte della pittura analitica di Claudio Olivieri e Claudio Verna, suoi maestri e riferimenti. Eppure, anche in quei primi lavori emerge la dimensione emozionale che la scuola aniconica della Nuova Pittura ha invece sempre sconfessato. L’avvicinarsi di Cioffi, fin dai primi tempi, ad un altro maestro della pittura, diversissimo dai precedenti e dal forte afflato lirico espressionista, come Mario Raciti, artista colmo di riferimenti etici e simbolici, è la prova di una scelta di campo tutt’altro che relativista, diremmo invece romantica. Il caso della sua particolare vicinanza con un altro maestro, Valentino Vago, analitico “tangente”, è emblematico e forse il più vicino allo spirito della ricerca di Cioffi. Vago, credente, muove una ricerca rivolta all’ Assoluto, ad una dimensione spirituale che soprattutto dagli anni Novanta determina una sua netta scissione dai principi materialisti e tecnicisti analitici.

Dunque delineare la strada che partendo dalla fine degli anni Quaranta ha portato all’ oggettivazione minimale della pittura aniconico-analitica rappresenta un confronto utile alla lettura della particolare ricerca aniconica post- analitica di Cioffi.

La pittura aniconica italiana – pittura che ricordo non utilizza forme riconducibili a immagini che possano suggerire un collegamento con lo spazio reale e dunque con l’immagine – è sinonimo comunemente accettato per indicare la “Pittura Analitica” (termine coniato da Klaus Honnef nel 1974 e teorizzato da Filiberto Menna nello stesso anno), in alcuni casi chiamata “Astrattismo Analitico” o ancora “Pittura-Pittura” (termine utilizzato da molti critici militanti come Claudio Cerritelli) oppure “Astrazione Oggettiva”. Comunque la si chiami essa è un fenomeno flessibile (perché di un movimento vero e proprio non si tratta) che ebbe anni intensi, dalla mostra curata da Honnef al Westfälischer Kunstverein di Münster nel 1974 (poi ripetuta in parte a Milano) sino al 1977, con un ritorno di fiamma per “riesumazione critica”, con due importanti mostre monografiche nel 2003 di Marco Meneguzzo e nel 2004 di Roberto Bonomi; eventi che riscoprirono quel momento di pittura inaugurando ragguardevoli scritti critici di approfondimento, senz’altro utili per comprenderne gli elementi costitutivi, a freddo, trent’anni dopo.

La pittura Analitica ebbe artisti di riferimento come, Claudio Olivieri, Claudio Verna, Gianfranco Zappettini, Paolo Cotani, Carmengloria Morales, Marco Gastini, Riccardo Guarneri, Pino Pinelli, Giorgio Griffa, Enzo Cacciola e artisti “tangenti” come, per esempio, Gottardo Ortelli, Paolo Masi, Antonio Calderara, Vittorio Matino, Elio Marchegiani, Valentino Vago e voci in parziale controcanto seppur di diritto analitiche, come Carlo Battaglia che sempre ha espresso il senso allusivo della sua pittura. Essa si sviluppò in pochi anni, attraverso l’azione di pittori e di critici militanti immersi attivamente in un’epoca di tensioni sociali e di pulsioni “anabattiste” verso le consuetudini culturali, che corrispondevano alla tensione ideologica di un generale violento azzeramento dell’arte nei suoi termini comuni. Questo processo, però si era innescato già agli inizi del Secondo Dopoguerra in tutti i campi della cultura con un particolare accento al problema del “linguaggio” nella scrittura, nel cinema e nell’arte; pensiamo a Roland Barthes con i suoi saggi sul “grado zero” della scrittura (1953) o Alain Robbe-Grillet (1953) devastatore della tradizione linguistica francese, che risolve attraverso la fenomenologia oggettuale la soluzione psicologica dei suoi personaggi, in un collage di intuizioni e libere associazioni, inaugurando la genesi del “romanzo cosale” indicato da Umberto Eco (1964) e soprattutto il Nouveau Roman.

Dunque il florilegio di tutte queste linee di ricerca, molto diverse tra loro, traeva la sua forza di spinta dalla voluta, cercata, progettata eliminazione di tecniche e materiali tradizionali in tutti i campi del manufatto artistico.

La stagione “analitica” in Italia, intesa come nuovo atteggiamento di oggettivazione auto-significante dell’arte, cioè di un’azione artistica che abbia come cardini l’impersonalità, la sintesi minimalista tra superficie e colore, lo scetticismo verso i rimandi narrativi, l’intervento manuale minimo, il tecnicismo, l’anti- individualismo, ha origini più lontane del 1973. La pittura analitica trova la sua genesi, come abbiamo accennato, nel flusso di novità deflagranti nel Secondo Dopoguerra, in quel processo inarrestabile che traeva suggestioni non più solo dall’osservazione della natura e della mente umana ma nell’oggetto artistico in sé (autoreferenzialità). In quel momento le fonti cui attingere l’interpretazione e approfondimento non sono più le scienze psicoanalitiche dei primi anni del Novecento bensì sono da un lato l’empirismo scientifico, soprattutto nel campo della ricerca dei materiali, e gli strumenti della tecnologia industriale (chimica, ottica ed elettronica); dall’altro lato sussiste un atteggiamento culturale, senz’altro post-surrealista e post-dada, che induce ad una ricerca iperbolica e senza freni orientata alla perturbazione tra immagine e visione, alterando completamente il senso del linguaggio che descrive la realtà. Lo spezzamento delle catene di regole e valori universali sfocia in una multidisciplinarietà che tende a stravolgere i paradigmi tradizionali in favore di una liberazione dei confini tra tipologie e modalità artistiche.

In Italia lo Spazialismo di Lucio Fontana (1947/1951-1958), i Nuclearisti (1951), l’Azimut di Piero Manzoni ed Enrico Castellani (1959) fanno scattare un processo di progressiva dissoluzione di tutta l’arte precedente, quello “sfrangiamento” delle diversità di cui parla T.W. Adorno in quegli anni; un’azione che gioca con le possibilità espressive dei mezzi, delle immagini, dei materiali e non solo.

Nei successivi Anni Sessanta il processo minimalista/relativista nell’arte assume forme sempre più nette, non solo nella forma ma nei contenuti. In quel periodo l’America Statunitense è impegnata con la seconda fase dell’Espressionismo Astratto, con il New Dada, il Fluxus, l’Optical e la Pop Art; in Europa esplode il fenomeno del Nouveau Realisme che seppur breve (1963-66) istruisce un nuovo tipo di surrealismo, sfuggente e ambivalente, che fa dell’eterogeneità dello stile e dei riferimenti l’assunto fondamentale delle sue azioni. La mancanza di purezza diventa un vero e proprio sistema che entrerà come un virus nella logica attuativa di tutte le forme di espressione artistica fino ai nostri anni nei quali gli elementi disciplinari e culturali sono utilizzati con la massima libertà senza curarsi del coefficiente di coerenza tra gli elementi costitutivi.

Sempre in Italia l’Arte Povera e Concettuale nelle sue diverse accezioni, la Land Art, l’Arte Programmata e l’Arte Cinetica, con anche le derive italiane di Fluxus e New Dada, portano ad un progressivo allontanamento dalla pittura. La pittura è morta, si dice in quegli anni. A metà degli anni Sessanta, la crescita della filosofia analitica, l’epistemologia, l’operazionismo di Bridgman, lo strutturalismo francese di Levi-Strauss, le teorie della comunicazione di Marshall McLuhan, spingono l’idea che la pittura sia “le operazioni che si eseguono per realizzarla” e che la stessa sia, in quanto medium, il messaggio in sè.

Per converso, negli anni Settanta, un riduzionismo della sperimentazione verso meccanicismi “auto-significanti” sempre più orientati all’oggetto in sé, al manufatto, al prodotto verificato analiticamente, e l’allontanamento dalle valenze espressive più vicine ai valori umanistici, lirici, spirituali, “narrativi” e individuali porta spesso a teoretiche involute e ricerche didascaliche per eccesso di rigidità, che rimangono imprigionate nel “qui e ora” di una attualità che invecchia velocemente imprigionata dalle ideologie politiche che governano un nuovo moralismo.

La pittura Analitica, allora, esprime nei suoi assunti fondamentali la sintesi di un fare, la disciplina di una prassi, l’annullamento di una ricerca metafisica all’interno della composizione, la stasi assoluta nell’adesso, probabilmente il tentativo utopistico di annullare il tempo come necessaria operazione di assolutizzazione dell’opera dunque scollandola dal suo autore umano, imperfetto perché individuo, perché vittima delle sue pulsioni, perché debole rispetto al monolito dell’idea, perché tendente a particolarismi lontani da quello che, in quegli anni, era il tema fondamentale ovvero determinare l’azione impersonale in funzione di rieducazione sociale e culturale.

Credo che la maggioranza di questi assunti non sia in realtà possibile e che gran parte della teoria dedicata a questo tipo di pittura assuma le proporzioni del virtuosismo intellettuale di matrice ideologica, suggestivo certamente, a tratti affascinante, ma con proposizioni che le nuove neuroscienze e il neuroimagering sconfessano in toto: non è possibile per un autore, come per chiunque, evitare di incardinare in una azione manuale i sentimenti e le sensazioni che immancabilmente l’azione artistica (il disegno per esempio) produce in quel momento nella mente di chi lo fa. Infatti questa azione fisica si traduce in una visualizzazione creativa ed emotiva delle immagini latenti nella memoria. Tutto ciò è l’evidenza di quella auto-narrazione, individuale, suggerita dalle stesse immagini e tanto paventata dai teoretici analitici. Dunque tracciare una linea manualmente produce reazioni psichiche identiche al dipingere una veduta romantica. Il medium è un medium perché media, appunto, qualcosa d’altro da sé (già negli anni Cinquanta argomento di studi all’avanguardia di Merleau-Ponty). L’azione di un gesto, soprattutto se proiettivo come nell’arte, è ambito ove le figure latenti nella mente di chi fa si immettono immancabilmente nel processo del fare, lo conducono subliminalmente. E ciò che è fatto in qualche modo è il prodotto di una immaginazione metafisica, che ha trasformato l’oggetto in soggetto, l’azione in creazione. Per altro gli stessi Olivieri e Verna prendevano, negli ultimi anni, netta distanza da posizioni integraliste e già nel 1979 Zappettini, pur “respingendo la schiuma del cuore”, cioè oziosi lirismi, parlava del primato dell’incidenza soggettiva nell’azione della pittura che, nonostante il suo personale tentativo di porsi come autore analitico in “posizione di sostanziale estraneità”, agiva comunque all’interno del suo fare innescando, attraverso le immagini della memoria e la suggestione cromatica, l’allusione sentimentale. Alla fine l’attitudine percettiva vinceva sulla sua volontà di imporsi una disciplina che scollasse il suo fare dal suo pensiero e dalle immagini da esso indotte; stiamo parlando di quella soggettivazione percettiva di cui Flaubert già parla in Madame Bovary nel 1856. Dunque l’opera è una inevitabile proiezione della mente dell’autore, fatta di immagini e sentimento (Einfühlung, rispondenza sottile) che appaiono nel momento stesso del gesto del comporla, e la stessa opera finita coinvolge lo spettatore quale evidente espressione allusiva/narrativa propria dell’autore, che ha quella forma (e non altre) perché prodotta da quelle immagini (e non altre) che si sono formate al momento della sua creazione. E l’opera, diventando innesco (voluto e definito da una forma) per lo stimolo psichico di chi guarda, assume il ruolo di “testo” e dunque di narrazione, racconto aperto all’esterno. D’altronde come ebbe già a dire Albino Galvano nel 1961 la carica allusiva/illusiva dell’astrazione veicola “contenuto, soggetto e sentimento” come evoluzione della narrazione figurativa. E non troviamo 12 anni dopo un impianto teoretico sufficiente a convincerci del contrario. Allora, in tutta questa vicenda della pittura analitica ravvisiamo anche un aspetto strategico, oltre le motivazioni scientiste e le giustificazioni teoretiche: in realtà, forse, i teorici hanno reagito per salvare la pittura, “cambiando tutto per non cambiare nulla”, come diceva il Principe ne “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Costoro hanno cercato di frenarne l’estinzione annunciata con l’idea di assimilare l’arte del pennello, che profondamente e culturalmente sentivano – e che non potevano accettare scomparisse – alla concettualità oggettivante, relativizzante, propria di quelle nuove esperienze che tendevano a cancellarla.

Raffaele Cioffi questo lo ha capito non attraverso complesse operazioni dialogico-critiche ma mediante l’intuizione suggerita dal suo talento, attraverso il suo percorso personale dedicato al fare fisicamente la pittura, cogliendo dalla scuola analitica gli elementi utili per comporre il suo linguaggio ma abbandonando le estremizzazioni teoretiche. Dunque egli agisce costruendo una pittura che possiamo definire post-analitica, attuando in tre decenni di pratica, una propria personale ricerca, libera da legacci ideologici o di gruppo, da assunti e norme di cui non ha mai riconosciuto l’autorità. Invece egli ha tratto dai suoi maestri il senso etico del rigore del fare pittura, dell’importanza sacrale di quel gesto e dell’impegno quotidiano continuo. Di tutta quella matrice pittorica ha colto alcuni valori come acquisire una tecnica ben delineata (di cui padroneggiare perfettamente la misura e le possibilità) e il senso dell’impianto cromatico, articolato attraverso una sapiente disciplina compositiva che rende la struttura efficace perchè tesa alla proporzione di limite del segno.

Ecco allora perché affermiamo che Cioffi sia un pittore post-analitico; perché egli assume di quella pittura il senso dell’immagine ma conduce le sue scelte volutamente verso una condivisione con lo spettatore di un evento che sta accadendo attraverso il medium, attraverso l’opera, superando nettamente la rigidità cadaverica di una pittura che vuole rimanere oggetto immoto e auto concluso, e aprendo l’astrattismo di sintesi ad una dimensione evocativa e coinvolgente. Cioffi segna il passaggio dalla pittura analitica, cristallizzata nelle sue remore teoretiche innaturali, alla pittura post- analitica che digerisce il passato ma non rinnega aprioristicamente il suo ruolo espressivo di tramite tra l’immagine del reale e la visione dell’immaginazione.

 

Luce. Ombra. Pittura.

Il lavoro di Cioffi degli ultimi anni è sempre più orientato verso una narrazione pittorica che muove attraverso l’originale articolazione del colore e del segno, che definiamo “pivotante” ovvero una stesura per colpi di pennello orientata secondo orbite sempre diverse, vettori onnidirezionali volti a creare un tessuto reticolare, cangiante e poroso di colori sovrapposti, che appare in forma di vaporizzazioni sottili dalle cromie tonali; espressioni di una pittura che cerca non solo l’espansione dinamica all’interno della composizione ma che desidera coinvolgere lo spazio esterno all’ ”oggetto quadro” modificando la percezione dello spazio reale che vi sta intorno. Con questa sua tecnica di stesura del pigmento, totalmente manuale, nervosa, complessa, Cioffi riesce a narrare l’esperienza del movimento trascendente tra la nostra realtà e quella del mistero, coinvolgendo l’osservatore in una partecipazione di sorprendente intensità. Con duttilità tipicamente contemporanea attiva una personale declinazione di elementi formali dei maestri del passato, come i vapori luminosi di Turner e la frammentazione cromatica di Monet e Seurat, il Color Field di Rothko ma anche richiamando, con il senso assiale e rigoroso dell’impostazione pittorica, assonanze con la pittura dei primitivi medioevali.

Con la mostra “Luce Ombra Pittura” alla Galleria di Palazzo Ducale a Mantova il pittore lombardo offre al visitatore i suoi ultimi lavori; grandi tele inedite che esprimono una nuova linea della pittura immersiva e romantica; una fase di maggiore riflessione e profondità rispetto alla mostra precedente da noi curata su due piani del Museo di Arte Contemporanea di Lissone, “Soglie. 2018-2020”, dominata da colori sgargianti e da luminosità intense.

La mostra a Palazzo Ducale, che si sviluppa in tre grandi ambienti del Palazzo del Capitano, dichiara un percorso progressivo che corre attraverso la prima stanza con le ultime composizioni eseguite del ciclo “Soglie”, nelle quali è evidente il gioco di contrasti profondi (per esempio “Porta Blu”) preludio alla successiva fase. Raggiungendo la seconda sala abbiamo una fase intermedia di esperimenti degli anni 2018-20, che abbiamo voluto fossero mostrati insieme alle nuove composizioni proprio perché riflessioni di ciò che quattro anni dopo il pittore avrebbe articolato con scelte definitive. Dunque queste opere del 2018-20 sono composizioni che declinano il colore ma in una dimensione appannata, oscurata da una specie di nebbia che riduce ogni vivacità (“Alone Rosa”), e che introducono le ultime ricerche.

Nella grande sala finale, infatti, troviamo i lavori dell’ultimo periodo, i “Passaggi”, nei quali l’impronta chiaroscurale marcata e la differenza dei campi netta, evidenziano un fare denso, categorico, senz’altro dai toni più gravi, eppure sempre illuminato da una energia che pulsa in sotto traccia ovvero il colore, vibrato e pulsante, “pivotante”, pronto ad emergere. In questi lavori l’uso della luce e dell’ombra appare più deciso; lo stesso assetto linguistico delle composizioni si dichiara maggiormente sintetico e introspettivo rispetto ai lavori precedenti, declinato per tagli costruttivi di campo dal margine netto e con scelte cromatiche rigorose.

Cioffi con questi ultimi lavori desidera ancora più chiaramente far coincidere due mondi che sembrerebbero inavvicinabili: quello dell’arte che non vuole esprimere che l’estetica di sé al momento della fruizione (pittura pura senza significato voluto) e quello dell’arte di matrice automatico-psichica che innesca deliberatamente nell’osservatore l’elaborazione di immagini inconsce e di suggestioni immaginifiche, dunque una narrazione provocata. Appare evidente l’afflato lirico di questo autore che intenzionalmente utilizza un linguaggio di sintesi per raccontare la complessità del rapporto tra arte e realtà, tra verità dell’oggetto e verità della percezione, tra descrizione e racconto.

Negli “Aloni” Cioffi ci suggerisce una specie di ingrandimento di lacerti dei lavori del ciclo precedente, le “Soglie”; visioni dall’interno, diremmo “oltre lo specchio”, dei portali ultra dimensionali, e questa scelta esprime il senso dell’autoanalisi di Cioffi verso la struttura costitutiva della sua pittura; tela dipinta come spazio di una riflessione necessaria all’artista nei confronti delle sue ragioni linguistiche dopo trent’anni di pratica pittorica.

Lo stesso Claudio Olivieri scrive su Cioffi che la sua pittura, superando le impostazioni analitiche, assume direzioni emotive articolandosi “in modo sempre diverso, (…) aprendo nuove aree cromatiche o mutando velocità o repentinamente arrestandosi, mantenendo però sempre un’energia che fa vibrare il colore. E’ dal segno che scaturiscono tutte le possibili potenzialità dell’immagine, dalle trasparenze alle densità sino al corrugarsi della materia in un tumulto cromatico o distendendosi in un appagamento luminoso.  E’ certo una coerenza, ma non dovuta alla declinazione dei precetti analitici, bensì all’intensità dei risultati, alla mobilità dei percorsi emotivi, al tentare un esito non previsto né classificabile. Ma osservando uno dopo l’altro i dipinti avverto una domanda: cosa muove tutto questo? Da dove ha inizio questo viaggio nel colore percorso e a volte perturbato, a volte scosso o risonante come se la traccia del segno ne provocasse il senso nascosto?”.  In questo scritto, dedicato alla mostra “Sipario” del 2013, lo stesso Olivieri nelle ultime righe pone in sottotraccia che tutto l’impianto complesso di questa pittura abbia una origine lirica, cioè narrativa, e non razionale (il senso nascosto) ed essendo lui un autore nato sotto il sigillo analitico, con lo strumento retorico della domanda, suggerisce curiosamente che l’origine non si possa trovare nell’opera in sé ma oltre, in un mistero che proprio quel segno, proprio quella pittura fatta di luce, di ombra e di colore vuole suggerire oltre sé stessa.

D’altronde luce e ombra sono elementi costitutivi della meccanica espressiva di un pittore.

E la pittura è l’unica azione che il pittore conosce per realizzare il suo testamento di verità, oltre le cose del reale.

 

 

Bibliografia

 

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Robbe-Grillet, Alain, Una via per il romanzo futuro, a cura e con un saggio introduttivo di R. Barilli, Rusconi-Paolazzi Editori, Milano, 1961.

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