Caro Raffaele,

             sono passati ormai alcuni anni da quando ci confrontavamo all’Accademia di Brera, da posizioni ovviamente diverse – tu studente, io dall’altra parte della scrivania -, ma mi accorgo che questo tipo di legami dura ben al di là del corso di studi, e si mantiene in certi casi quasi inalterato per tutta la vita. Così, non ho paura di parlarti con quella franchezza che forse non userei con artisti conosciuti in altro modo, cioè non seguiti sin dai loro esordi, dalle loro prime prove. E’, questa, una sorta di intimità difficile da ottenere, perché è come scrutare tra i quadri che i pittori, una volta consapevoli del loro percorso, non ti farebbero vedere mai, pur conservandoli nel loro studio…a questo proposito, ricordo la tua sicurezza nell’imboccare sin dall’inizio la strada dell’astrazione – non saprei davvero come altro chiamare questa tua ricerca -, e di come guardavi e riguardavi quei maestri che ti eri precocemente scelto e che, mi pare, non hai davvero rinnegato oggi. Una scelta difficile, allora come oggi, sia per gli equivoci che circondano questo tipo di astrazione – primo fra tutti l’accusa, insensata, di formalismo -, sia per la scarsa fortuna che ora vivono tutte quelle ricerche volte, per usare un termine che ti è caro, a una “prospettiva interiore”, cioè a un’introspezione contemplativa lontana da ogni clamore sensazionalistico. Per questo, è indispensabile una disciplina intrinseca, che è prima caratteriale che linguistica, che sta a monte della prima pennellata, di tutte le prime pennellate: ebbene, questo atteggiamento credo di averlo ritrovato in te, insieme a tutta quella dose di sicurezza che in un giovane a volte assomiglia a una testarda coerenza. Non si può fare altrimenti nell’affrontare una disciplina pittorica che, passati i fasti della scoperta – gli anni Cinquanta di Barnett Newman, ma anche di Lucio Fontana -, superati gli anni dell’analisi linguistica – le esperienze di pittura analitica degli anni Sessanta/Settanta -, oggi si può muovere soltanto individualmente, quasi che l’artista che se ne occupa fosse una monade, una particella “senza finestre”, come dice Leibniz, destinata a una storia specialissima ma difficilmente condivisibile con altri. Anche per questo, come è accaduto per artisti di generazioni appena precedenti la tua che si muovono sulle stesse corde, mi pare che oggi le conquiste della pittura astratta si debbano continuamente ricostruire, non siano cioè una specie di patrimonio culturale assodato, entrato nella memoria genetica degli artisti, ma debbano al contrario essere esperite, provate, trovate ogni volta daccapo.

Così, anche tu hai agito in questo modo, conoscendo certamente chi ti ha preceduto e chi hai amato, ma reputando impossibile partire da ciò che loro avevano lasciato: questo atteggiamento che – ripeto – non è solo tuo ma appartiene ai molti solitari artisti tuttora impegnati in questa ricerca, ci rivela qualcosa di importante a proposito della pittura, della pratica del dipingere, del pensiero che le sta alle spalle. Non è possibile, infatti, fare pittura scindendo l’aspetto concettuale da quello fisico, fabrile: per questo tu hai sentito il bisogno, hai “dovuto” ripercorrere sulla tela quello che già conoscevi nella mente, perché, di fatto, la verifica linguistica che si fa ogni qualvolta il pennello lascia la sua traccia sulla tela è qualcosa di ben più ricco e complesso del “semplice” assunto ideale. Come a dire che dieci centimetri quadrati di rosso sono ben diversi da un metro quadrato dello stesso rosso: ovvietà visiva, fisica, evidente, ma che non trova riscontro nella logica che vedesse coinvolto solo il concetto di “rosso”…per non parlare poi di tutta la carica emotiva che grava su quelle setole intrise di colore.

Così, nei tuoi quadri riconosco molti passaggi “obbligati” per un artista che, come te, ha scelto di ripercorrere alla sua maniera sentieri conosciuti: non ho citato a caso né Newman, né Fontana, e potrei continuare anche con Claudio Olivieri, che ti ha dedicato una bella pagina sul tuo catalogo del Museo di Revere…ma, giustamente, la tua esigenza, la domanda che ti poni e mi poni non riguarda tanto da dove vieni – ho già parlato della tua consapevolezza -, quanto dove stai andando, e se questo andare rischia di scoprire sentieri non troppo battuti, se non proprio del tutto nuovi.

Cercherò di rispondere con quella franchezza di cui ti dicevo sopra. E’ da molto tempo, ormai, che questo tipo di pittura – analitica, astratta, “progettata”, cromatica, del “campo di colore” – non può che rivolgersi a “varianti” sempre più infinitesime, se paragonate alle grandi “conquiste” linguistiche di cinquanta, sessant’anni fa. Non c’è da averne paura, c’è solo da esserne coscienti: come avviene per la scienza, dove investimenti sempre più grandi servono per scoperte sempre più piccole, se paragonate, per esempio, alle grandi invenzioni individuali del XIX secolo, così per questa tendenza pittorica che non si serve di nuovi media, che rifiuta ogni enfasi dettata da qualcosa di diverso dalla pittura stessa, che aspira a uno stato contemplativo anche quando crede di essere violenta ed emotiva, le scoperte sono minime, sono dettate da un lungo e oscuro lavoro che approda – quando è coronato da successo – a una “variante” linguistica di portata e di importanza decisamente inferiori a quelle da cui si è partiti. Si tratta allora di un lavoro inutile, da abbandonare? No di certo, come non si abbandona la ricerca scientifica, perché il tassello che si aggiunge è comunque importante e ci aiuta a comprendere proprio la vastità di quella ricerca, e a supporne, per esempio, zone ancora inesplorate. E’ per questi motivi, allora, tornando al tuo lavoro, che trovo interessante, ad esempio, quella tua volontà di “tornare nelle tela”, quasi di “rimarginare” i tagli di Fontana, quel tuo non aver paura di creare profondità fittizie nei quadri – le “prospettive interiori”, appunto, che suggeriscono tra l’altro analogie emotive tra colore e sentimenti -, cosa che generazioni più analitiche e meno libere della tua avrebbero evitato, per timore di essere troppo narrative. In questo riconosco la “novità” che tu e la tua generazione state mettendo in scena: dopo tanta ricerca di purezza concettuale portata sino all’ennesimo punto zero, oggi non avete paura di riconsiderare il quadro come una finestra.

              

Un saluto e un augurio,

Marco Meneguzzo